Festeggiare il 70° anno della liberazione dal nazifascismo tuffandoci acriticamente nel magma delle celebrazioni “istituzionali” significa per noi svuotare il 25 aprile del suo significato più intimo e profondo. Inchiodare i valori della resistenza su una targa, nasconderli dietro una semplice bandiera, rievocarne i canti e fare tutto questo senza attualizzare lo spirito che ha animato la lotta partigiana, sarebbe come cedere il passo all’indifferenza, a quel peso morto della storia che fa cadere su pochi il peso della catena sociale.
Per noi festeggiare la Liberazione significa innanzi tutto muovere una critica radicale agli uomini che controllano e solidarizzano col governo, a quei pochi che affamano i molti e sprecano miliardi in opere inutili (TAV, inceneritori, rigassificatori, trivellazioni ecc.), cancellano i diritti conquistati in anni di lotte sociali e sindacali (Job Act e Buona Scuola). Per noi festeggiare la Liberazione è sbattere in faccia ai potenti l’art. 3 della Costituzione – la stessa che un Parlamento formato con una legge incostituzionale vuole modificare – e proclamare che la Repubblica si costruisce rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Per noi festeggiare la liberazione significa rendere la cultura un diritto effettivo e non un lusso, significa rispondere al bisogno di recuperare gli spazi consegnati al degrado da amministrazioni indifferenti e farne luoghi di emancipazione, significa stare nelle scuole e nei quartieri popolari per rompere le sacche di emarginazione, significa rivendicare il sacrosanto diritto alla partecipazione senza distinzioni di “sesso, razza o religione”.
Da partigiani sentiamo il bisogno di opporci in maniera radicale all’asservimento del territorio a logiche di guerra (come accade col MUOS), opporci a chi pensa di gestire le migrazioni umane aprendo la barbarie della speculazione economica, dell’odio razziale e della paura (come accade nella gestione dei C.A.R.A. e dei C.I.E.). Da partigiani crediamo che la mafia non si combatta con manette, sirene e perverse alleanze con Confindustria; che non si debba rispondere alla crisi chiudendo ospedali, scuole e asili nido.
Festeggiare la liberazione è essere quello che siamo, vivere, sentire nelle coscienze della nostra parte pulsare l’attività di quel mondo che stiamo costruendo.