Vivere in carcere significa spendere la propria vita in una dimensione separata rispetto alla società, con gente che ha commesso i crimini più svariati. Più lunga è la reclusione, più difficile diventa ricominciare una nuova vita dopo essere stati rilasciati.
Una lezione, questa, che le moderne società democratiche stanno lentamente imparando. Quelle che vi racconteremo sono le storie di due giovani, provenienti dai Baltici, che hanno vissuto l’esperienza del carcere. Queste storie mostrano come, per gli ex detenuti, le opportunità di reinserimento sociale in contesti come il lavoro, la scuola, i gruppi di supporto, siano cambiate. Eppure essi pensano ancora che sia meglio nascondere il loro passato in vista di una più rapida reintegrazione.
La speranza di essere migliori
“Chiedimi pure quel che devi”, Janis, un lettone poco più che ventenne, di Riga, è nervoso prima dell’intervista. Si accende una sigaretta e aspetta che il suo caffè si raffreddi. Ci troviamo in una stanza minuscola, dove lui e i suoi colleghi trascorrono insieme la pausa pranzo e si cambiano dopo avere lavorato tutto il giorno per una ditta di costruzioni. Al momento, però, siamo soli, Janis si sente al sicuro e può raccontare la sua storia. Una storia di cui i suoi colleghi non sono al corrente. Janis è convinto che il loro atteggiamento nei suoi confronti potrebbe cambiare radicalmente se sapessero che lui è un ex detenuto. “Per quale motivo sei finito in carcere?”, fu la prima domanda dell’intervista, e chissà quante volte Janis se l’era sentita fare, quella domanda. “Come spiegare… Articolo 25, parte 3”, rispose lui dopo una lunga pausa. Janis sembrava riluttante a parlare del crimine che aveva commesso e pensò che fosse meglio affidarsi a numeri e sezioni del codice penale. In altre parole, è stato condannato per aver “causato intenzionalmente gravi lesioni personali, con l’ausilio del gruppo” a un ragazzo che maltrattava sua sorella. Janis non entra nei dettagli del reato, sa solo che doveva dare una lezione a quel tipo.
Ma prima di poter dare lezioni a qualcuno, ammette Janis, lui stesso aveva tanto da imparare. “Ti riferisci alla prima volta che Janis è stato in prigione? Aveva 17 anni”. Liene, la sorella di Janis, rivela maggiori dettagli sul passato di suo fratello. “Quella volta erano in sette o forse anche di più. Erano ubriachi e sotto l’effetto di stupefacenti. Hanno picchiato un ragazzo, che è finito in coma per un mese e mezzo e alla fine non ce l’ha fatta. Janis ottenne la sospensione della sentenza per tre anni e nel frattempo doveva stare attento a non commettere nemmeno il più piccolo reato. Ma le cose andarono diversamente. Furto. È stato proprio questo il crimine che alla fine lo ha messo dietro le sbarre per tre anni e tre mesi. Quando Janis fu arrestato aveva solo 20 anni. Per Liene e per la sua famiglia fu un momento molto difficile. A giudicare dalla condotta di suo fratello, Liene sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. “Forse questa è stata la lezione di vita che lo ha cambiato”.
Tante attività si possono svolgere in carcere
“Non voglio tornare indietro”, dice Janis, che non parla facilmente delle sue emozioni e dei suoi sentimenti. Janis considera l’educazione come la cosa più preziosa che ha acquisito durante gli anni di detenzione. Aveva solo 14 anni quando ha lasciato la scuola. In quel momento il business delle costruzioni stava crescendo e così ha iniziato a lavorare come muratore, ma senza contratto, come spesso accadeva in quagli anni. Diventare un professionista nel settore edile è ora il suo sogno. La possibilità di studiare durante la reclusione gli ha permesso di fare qualche passo avanti verso una sua realizzazione. Partito da un livello elementare, Janis è adesso un elettricista qualificato. “A essere onesti, ero solo un idiota, un buono a nulla”, commenta il giovane. Mentre scontava la sua pena in carcere, Janis ha colto l’opportunità di lavorare. “Abbiamo cambiato il tetto della mensa, rinnovato la zona giorno, montato le docce. Si poteva lavorare come cuochi, addetti alle pulizie, costruttori, elettricisti o saldatori. C’erano diverse mansioni”. Janis ama il basket e anche altri sport che poteva praticare in carcere. “C’era abbastanza tempo per fare diverse attività”, ha aggiunto. E abbastanza tempo per pensare. “Ho riflettuto molto su cosa fare una volta uscito dal carcere. Se continuare a vivere come prima oppure no”. Il suo lavoro, i suoi studi e la buona condotta gli hanno permesso di riacquistare la libertà tre mesi prima del previsto. Suo padre, che lavora da dieci anni nel settore edile, gli ha trovato un lavoro subito dopo il suo rilascio. Nonostante questo, Janis avverte il peso e le difficoltà di un reinserimento nella società. “C’è un abisso tra il carcere e la realtà quotidiana. Cambiano gli stati d’animo e cambiano le priorità. Vivere in libertà è una sfida, perché devi pensare a come guadagnarti il pane, a come costruire una famglia. In carcere vitto e alloggio sono assicurati”. Secondo statistiche ufficiali, in Lettonia il 70% degli ex detenuti ritorna in carcere entro un anno dalla loro scarcerazione. La stesso Janis lo ha consatato con i suoi amici – o meglio, con le sue amicizie passate. Parecchi di loro sono tutt’ora agli arresti per furto. “Loro non vogliono cambiare”, dice Janis. Eppure, l’esperienza pre-crisi delle “halfway houses” – centri di reintegrazione sociale per ex detenuti – in Lettonia ha mostrato come solo il 3% di quelli che vi risidevano è tornato in carcere. Purtroppo, queste strutture sono state chiuse nel 2008. Soltanto una su nove è rimasta aperta.
Da qualche parte, dietro ogni cosa
La storia di Juste, che vive a Vilnius, in Lituania, non è molto diversa da quella di Janis. Juste è vicina ai trent’anni, ma sembra più giovane. Indossa calze colorate e strani orecchini a forma di robot. Chiunque farebbe fatica a credere che questa ragazza così esuberante sia stata una tossicodipendente e abbia trascorso quattro anni della sua vita in carcere per spaccio di droga. Juste è fuori dal giro da quasi dieci anni. Otto, per l’esattezza. E il numero dieci ha un significato particolare per lei, strettamente connesso al suo primo incontro col gruppo di supporto per tossicodipendenti, avvenuto subito dopo il suo arresto. Uno dei leader del gruppo ha raccontato che non si drogava più da dieci anni e che sua moglie aspettava un bambino. “Dieci anni! Mi è sembrato così sorprendente!”, nella mente di Juste riaffiora quel senso di ammirazione che piano piano scacciava la rabbia provata per essere stata costretta a frequantare gli incontri di gruppo. “Io dicevo loro che non avevo bisogno di andare agli incontri, perché i problemi di tossicodipendenza non mi riguardavano più. Per un anno e mezzo, mentre aspettavo la sentenza e durante il periodo di detenzione, non ho toccato alcun tipo di droga”.
All’inizio Juste temeva che il gruppo fosse formato da fanatici bigotti, ma adesso ammette che proprio da lì è iniziata la sua nuova vita. Non prova più nemmeno rabbia se pensa agli anni trascorsi in carcere. Prima di quel giorno cruciale, in cui la polizia perquisì la sua casa e trovò due grammi di eroina, Juste pensava di poter vivere autonomamente, di sapersi prendere cura di se stessa: non aveva bisogno di istruzione, nè dell’aiuto dei suoi genitori. Pensava di essere libera. Ma volgendo adesso lo sguardo al passato, Juste si rende conto di come quei giorni fossero così lontani dalla vera libertà. “Mi svegliavo, mi drogavo e andavo a incontrare un cliente. Dopo un’altra dose. Poi un incontro, una dose, un altro incontro, e ancora un’altra dose. Non c’era nient’altro nella mia vita”. Il gruppo di supporto in carcere cominciò a farle vedere la miseria di un’esistenza condotta in tal modo. “Avevo 21 anni. I miei amici iniziavano a frequentare l’università. Alcuni cominiciavano a mettere su famiglia. E io non avevo niente”. Juste ha capito che era tempo di imparare a fare qualcosa nella propria vita, come lavorare e studiare. “Mi sentivo come una bambina che doveva imparare qualsiasi cosa dall’inizio”. Juste ha lavorato come sarta e si è anche dedicata all’imballaggio della frutta. Allo stesso tempo ha terminato gli studi di scuola superiore. Così come Janis, per il suo impegno nello studio e nel lavoro, ha ottenuto uno sconto di pena: quattro anni anziché otto.
Trattati normalmente
Juste concorda col fatto che vivere in mezzo ad altre persone che hanno violato la legge può avere effetti negativi, ma questo in lei ha rafforzato il desiderio di farcela e di non tornare mai più indietro. “Ho visto giovani donne senza denti. Donne che vorrebbero trascorrere le loro giornate a guardare serie televisive russe. Una volta stavo leggendo un libro e una ragazza si è avvicinata chiedendomi il motivo per cui mi stessi dedicando a quell’attività. Lo trovo interessante, risposi. E lei: Interessante? Tu sei fuori”.
Juste ha trovato comprensione e conforto nella scuola per detenuti. “Gli insegnanti mi hanno accettata e trattata come una ragazza normale. Avevamo piacevoli conversazioni. Da loro ho imparato tanto. La scuola era come un mondo a parte tra le mura del carcere”. Juste ha ricevuto il diploma di scuola superiore all’età di 25 anni.
Dopo il suo rilascio, ha smesso di frequentare il gruppo anonimo di tossicodipendenti, perché sentiva di aver ripreso il controllo della sua vita. Ma per più di un anno ha sofferto di depressione e ha avuto difficoltà a gestire le relazioni interpersonali. Ha anche provato a cercare un lavoro.
“Quando sono andata agli uffici di collocamento, ho dovuto dichiarare di essere un’ex detenuta perché avevo bisogno di alcuni documenti legati alla mia libertà vigilata. Una dipendente dell’ufficio mi guardò e disse: vuoi lavorare? Non ci sono lavori per ex detenuti”. E così Juste ha pensato di fare da sé e di guardare alle offerte di lavoro. Durante i colloqui mentiva, e quei quattro anni di vuoto che si riflettevano sul suo curriculum vitae li riempiva con viaggi inventati e lunghi periodi spesi in Italia e in Inghilterra. Juste ha trovato lavoro in un negozio di abbigliamento e successivamente in un’ottica. Adesso pensa anche alla possibilità di studiare, ma non riesce a decidere, perché le piace la storia, le piace scrivere, le piacerebbe anche studiare inglese o italiano. Nonostante le difficoltà incontrate a seguito della scarcerazione, Juste è convinta che dopo l’arresto sia iniziata per lei la rimonta. “Se non avessi frequentato il gruppo anonimo in carcere, avrei sicuramente preso una dose per scacciare i cattivi pensieri non appena avessi potuto. Ma avevo così tanta paura di farlo”.
Autore: Ketija Riteniece
Articolo tratto dal sito di Media4change: